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Gestione dell’impresa, continuità aziendale

Gestione dell’impresa in assenza delle condizioni che giustificano la continuità aziendale, responsabilità dell’ex amministratore o del liquidatore.

Pubblicato il 14 July 2019 in Diritto Commerciale, Giurisprudenza Civile

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA
SEZIONE SPECIALIZZATA IN MATERIA DI IMPRESA CIVILE

Il Tribunale, in composizione collegiale, riunito nella Camera di Consiglio del 19 giugno 2019, alla presenza dei Magistrati:

ha pronunciato la seguente

SENTENZA n. 1611/2019 pubblicata il 12/07/2019

nella causa civile iscritta al n. R.G. /2015, promossa da:

FALLIMENTO XXX, in persona del curatore fallimentare
, rappresentato e difeso dall’Avv.

ATTORE

Contro

YYY
ZZZ KKK con il patrocinio dell’Avv. e dell’Avv.

CONVENUTI

CONCLUSIONI

I Procuratori delle parti hanno precisato le conclusioni riportandosi a quelle formulate nelle note rispettivamente depositate.

Il Procuratore di parte attrice ha precisato le conclusioni come segue:

“In via preliminare e istruttoria:

– rimettere in istruttoria la causa disponendone un’integrazione dell’elaborato peritale che tenga conto delle osservazioni alla CTU già formulate da parte attrice, in particolare, come da verbale dell’udienza del 08.03.2018, affinché il CTU provveda ad effettuare il ricalcolo/ integrare il proprio elaborato nei termini che seguono:

a) il CTU acquisisca e riversi in atti la documentazione oggetto di richiesta di esibizione nei confronti di *** di cui all’ordinanza del 31.10.2017;

b) il CTU integri il proprio elaborato valutando l’avviamento del compendio aziendale affittato alla luce del fatturato complessivo di ***, ovvero considerato tutto il fatturato relativo alle lavorazioni riferibili al compendio strumentale affittato a prescindere dalla circostanza che i nominativi dei clienti indicati nelle fatture siano o meno contenuti nel contratto di affitto 2012, per il triennio 2012-2014 secondo il metodo reddituale;

c) in particolare, il CTU valuti i dati oscurati di cui alle schede allegate al verbale delle operazioni del 21.11.2017, allegato alla relazione di CTU.

In via principale:

– accertare le responsabilità dei Sig.ri YYY, KKK e ZZZ, i quali, agendo, in conflitto di interesse, hanno deliberato e permesso la corresponsione di un irragionevole compenso al presidente del c.d.a. YYY per gli anni 2010 e 2011; conseguentemente, condannarli al pagamento, in solido tra loro, della somma di € 125.144,00, o nella diversa somma che dovesse risultare in corso di causa o secondo equità, oltre interessi legali, dalla data di debenza sino al saldo effettivo;

– accertare le responsabilità dei Sig.ri YYY, KKK e ZZZ, i quali, agendo, in conflitto di interesse, in forza dei rispettivi ruoli hanno deliberato, permesso e concluso la stipula di un contratto di affitto di azienda per un prezzo irragionevole, oltre alla successiva ingiustificata riduzione dello stesso; conseguentemente, condannarli al pagamento, in solido tra loro, della somma di € 580.799,43, o nella diversa somma che dovesse risultare in corso di causa o secondo equità, oltre interessi legali, dalla data di debenza sino al saldo effettivo. Con vittoria di diritti, spese ed onorari.”

I Procuratori di parte convenuta hanno precisato le conclusioni come segue:

“Voglia l’Ill.mo Tribunale adito, contrariis rejectis, premessa ogni opportuna declaratoria del caso e di legge, In via principale, nel merito:

rigettare tutte le domande formulate dal Fallimento XXX perché infondate sia in fatto sia in diritto e comunque non provate.

In via subordinata:

Nella denegata ipotesi di accoglimento delle domande di parte attrice, contenere la domanda nei limiti del provato e dovuto. In ogni caso:

Con vittoria delle spese e compensi di lite.”

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

Con atto di citazione ritualmente notificato, il Fallimento XXX conveniva in giudizio YYY, ZZZ e KKK, affinché venisse accertata la loro responsabilità quali ex amministratori della società poi fallita, con condanna degli stessi al risarcimento del danno.

Parte attrice esponeva che YYY, ZZZ e KKK erano soci della XXX S.r.l., rispettivamente nella misura del 44,5 %, del 46,36 % e del 9,09 % del capitale sociale, che gli stessi avevano ricoperto la carica di consiglieri di amministrazione (YYY anche quella di Presidente del CdA), che la società era stata messa in liquidazione con delibera assembleare del 21.06.2012, momento da cui ZZZ aveva assunto la carica di liquidatore della società sino al fallimento, dichiarato con sentenza del 25.02.2014 su istanza presentata dallo stesso liquidatore, a seguito delle ingenti perdite registrate sin dall’esercizio 2011.

Parte attrice deduceva che, nonostante la situazione critica in cui versava la società, i convenuti avevano tenuto i seguenti comportamenti illegittimi e dannosi.

Con delibera del 31.01.2010 i soci avevano stabilito un notevole aumento dei compensi del Presidente del CdA, YYY, benché questi nel corso della riunione del 30.04.2009 avesse riferito che il fatturato era calato in modo inaspettato e il bilancio relativo all’esercizio 2010 si fosse chiuso con un risultato pari ad € 1.048,40: secondo parte attrice, il compenso del Presidente del CdA era aumentato da € 14.013,51, nel 2009, ad € 69.480,00, nel 2010 e nel 2011 (docc. 11 e 13), era stato interamente versato nel 2010 e solo in minima parte nel 2011, come si rilevava dal relativo debito iscritto a bilancio 2013 e dall’istanza di ammissione allo stato passivo presentata da YYY per complessivi € 66.394,00, oltre interessi (doc. 24). Il fallimento attoreo deduceva che il compenso del Presidente del CdA, deliberato per gli anni 2010 e 2011, era del tutto irragionevole e ingiustificato, che la relativa delibera assembleare era suscettibile di annullamento per conflitto di interessi ex art. 2479 ter c.c. e fonte di responsabilità per i convenuti che l’avevano proposta e adottata; riteneva che il danno fosse quantificabile in complessivi € 125.144,00, quale differenza tra i compensi deliberati negli anni 2010 e 2011 rispetto a quelli previsti nell’anno 2009 (tenuto anche conto dell’importo non ancora versato, il cui credito era stato ammesso allo stato passivo). Parte attrice deduceva, poi, che con delibera del CdA del 18.06.2012, antecedente di tre giorni la delibera assembleare di messa in liquidazione della società, ZZZ (divenuto poi liquidatore) era stato autorizzato a sottoscrivere in data 21.06.2012 un contratto d’affitto di ramo d’azienda relativo all’intero complesso aziendale, concluso con *** S.r.l. (società costituita solo il 27.03.2012), di cui YYY era socio unico e amministratore unico, al canone mensile di € 1.200,00, ulteriormente ridotto senza adeguate giustificazioni ad € 350,00, con contratto dell’8.02.2013; rilevava che entrambi i canoni erano irrisori, alla luce delle perdite subite dalla società e rispetto al canone di leasing immobiliare concluso da XXX S.r.l. con *** LEASING, pari ad € 5.000,00 mensili nel periodo compreso tra l’1.02.2011 e l’1.07.2012, e ad € 8.862,59 successivamente sino alla scadenza (benché poi il contratto di leasing fosse stato risolto con la riconsegna dell’immobile in data 22.02.2013, a causa dell’inadempimento della società, verificatosi sin da maggio 2011). A tal fine il fallimento invocava la responsabilità innanzitutto di YYY, il quale pur avendo dichiarato il proprio conflitto di interessi astenendosi dalla votazione, aveva proposto un contratto di affitto di ramo d’azienda il cui canone era irragionevole, tenuto conto della grave situazione di difficoltà in cui versava la società; ZZZ era ritenuto responsabile del danno cagionato alla società sia come liquidatore della XXX S.r.l., che aveva sottoscritto i contratti, sia come socio consenziente ex art. 2476 co. 7 c.c.; anche KKK era chiamata a rispondere del danno come amministratrice, avendo votato a favore del conferimento a ZZZ della delega a concludere il contratto d’affitto di ramo d’azienda e non essendosi opposta alla riduzione successiva del canone.

Parte attrice rilevava che XXX S.r.l. era in stato di insolvenza sin dalla data della messa in liquidazione del 21.06.2012, come si evinceva dal mancato pagamento dei canoni di leasing immobiliare sin da maggio 2011, e che aveva protratto tale condizione fino alla dichiarazione di fallimento del 14.02.2014, intervenuta dopo il rigetto di una proposta di concordato preventivo “in bianco”, per consentire a *** di sfruttare l’azienda di XXX ad un corrispettivo irrisorio; determinava il danno con riferimento alla differenza tra la perdita di esercizio maturata nel corso della liquidazione, pari ad € 791.728,20 per il biennio 2012-2013, e il risultato di esercizio negativo conseguito nel 2011, pari ad €210.388,77, e così per un importo complessivo di € 580.799,43.

Nella comparsa di costituzione e risposta i convenuti deducevano che i compensi dell’amministratore indicati da parte attrice erano erronei, precisando che nel corso degli anni 2010 e 2011 YYY aveva percepito somme del tutto irrisorie; rilevavano che non vi era stato un ingiustificato incremento dei compensi erogati nell’anno 2009 e che il riferimento a tale esercizio era inconferente, dal momento che il relativo importo era frutto di un errore dovuto alla mancata emissione delle buste-paga da parte della CNA; evidenziava che controparte non aveva fornito elementi a fronte della irragionevolezza del compenso e che la retribuzione lorda di € 69.480,00 era congrua rispetto ai compensi previsti dal CCNL per la posizione direttiva in aziende dello stesso settore produttivo; escludeva la sussistenza di un conflitto di interessi quale vizio di annullabilità della delibera; riteneva in ogni caso che nella determinazione del danno non potesse essere conteggiato il credito dell’amministratore ammesso allo stato passivo in via chirografaria.

Inoltre i convenuti contestavano che la conclusione del contratto di affitto di azienda con *** s.r.l. avesse cagionato un danno alla società XXX, trattandosi di un’operazione che era finalizzata a conservarne l’avviamento in tale comparto anche a vantaggio dei creditori sociali, nel corso della fase di liquidazione, in cui XXX non sarebbe più stata in grado di proseguire l’attività aziendale, così come era stato esplicitato nelle premesse del contratto; riteneva che il canone non dovesse essere parametrato alle perdite e al costo del leasing immobiliare relativo ad un bene non compreso nel contratto di affitto, ma piuttosto al valore del compendio aziendale affittato e al relativo avviamento; sosteneva che la riduzione del canone prevista nel contratto dell’8.02.2013 fosse giustificata dalle ragioni ivi esposte, consistenti sia nell’impossibilità di utilizzare taluni beni aziendali esclusi dal compendio affittato, sia nella significativa riduzione del numero di clienti del ramo affittato (doc. 10), cosicché a pochi mesi di distanza il ramo d’azienda era stato in gran parte svuotato del suo valore, tanto che l’affittuaria aveva sospeso i pagamenti e concordato con XXX una riduzione dei canoni, fino alla comunicazione di recesso da parte di *** del 12.11.2014.

Parte convenuta rilevava, inoltre, che il fallimento aveva provveduto a far periziare i beni compresi nel ramo affittato, stimandone il valore in complessivi € 3.392,00 (doc. 14), e che successivamente tali beni erano stati venduti all’asta a prezzo di € 4.000,00, costituente l’unico ricavo realizzato dalla procedura; sosteneva che nessun danno era stato cagionato alla società, la quale durante l’esecuzione del contratto d’affitto aveva percepito canoni per € 18.000,00, ritenendo spropositata e del tutto infondata la pretesa risarcitoria del fallimento per € 580.799,43; precisava che le perdite erano riconducibili ad elementi del tutto estranei al contratto d’affitto, di cui dava puntualmente conto.

I convenuti chiedevano, dunque, il rigetto delle domande avanzate dal fallimento e, in subordine, nella denegata ipotesi di accoglimento, contenersi il danno nei limiti di quanto provato.

Nel corso del giudizio le parti depositavano le memorie ex art. 183 co. 6 c.p.c.; a seguito di eccezione di parte convenuta, nell’ordinanza del 23.02.2017 il Giudice rilevava la tardività della memoria n. 1 depositata da parte attrice.

Quindi, venivano disposti CTU e ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. della documentazione di contabile, commerciale e contrattuale di *** S.r.l., utile all’espletamento dell’incarico, come richiesti da parte attrice.

Infine, le parti precisavano le rispettive conclusioni e depositavano gli scritti conclusionali nei termini di cui all’art. 190 c.p.c..

Appare infondata, innanzitutto, la domanda proposta dal Fallimento attoreo al fine di ottenere il risarcimento del danno derivante dall’erogazione di un compenso ingiustificato in favore del Presidente del CdA, YYY.

Parte convenuta ha contestato quanto dedotto dal Fallimento, in relazione all’avvenuto incremento del compenso, che sarebbe aumentato da € 14.013,51 nel 2009 ad € 69.480,00 nel 2010; invero risulta che tale ultimo importo era stato già deliberato nel 2008 ed era rimasto invariato fino al 2011, ma non era stato interamente erogato all’amministratore nel 2009 solo a causa di un errore intervenuto nell’elaborazione delle buste paga. Di queste circostanze parte convenuta ha offerto riscontro documentale, producendo i mastrini dei compensi dell’amministratore e dei debiti verso l’amministratore (docc. 3, 4), in assenza di alcuna idonea contestazione avversaria, data la tardività del deposito della memoria di cui all’art. 183 co. 6 n. 1 c.p.c..

Dunque, è infondata la circostanza dedotta dal Fallimento, secondo cui nel 2010 era stato deliberato ed erogato all’amministratore un compenso spropositato rispetto a quello previsto per l’anno 2009. In ogni caso, non si ravvisano elementi per sostenere che l’importo lordo di € 69.480,00, deliberato in favore di YYY, fosse ingiustificato ed irragionevole; al riguardo parte convenuta ha prodotto il CCNL per i dirigenti di aziende industriali relativo al periodo 2009-2013, che prevede retribuzioni annue minime comprese tra € 57.000,00 ed € 72.000,00 per gli anni 2010-2011 (doc. 5), del tutto compatibili con il compenso in esame. Non è poi contestato che nel 2011 il compenso sia stato corrisposto solo in minima parte, tanto che YYY era stato ammesso allo stato passivo del Fallimento XXX S.r.l., in via chirografaria, per un credito corrispondente pari ad € 66.394,00 (doc. 24 di parte attrice).

Dunque, la domanda di parte attrice, oltre a basarsi su circostanze di fatto erronee, appare sfornita di adeguate allegazioni, anche considerando che la congruità e proporzionalità del compenso deve essere valutata con riguardo alla natura e ai compiti dell’amministratore, al corrispettivo corrente nel mercato per prestazioni analoghe e, in funzione complementare, alla situazione patrimoniale e all’andamento economico della società (Cass. civ. n. 28748 del 3.12.2008; Cass. civ. n. 15942 del 17.07.2007).

Con riguardo a quest’ultimo aspetto, si richiama il comportamento corretto tenuto dalla società e dai suoi amministratori, che non aveva provveduto ad erogare il compenso a YYY, se non in minima parte, nel 2011, proprio nell’anno in cui per la prima volta si era registrato un risultato d’esercizio negativo (doc. 5 di parte attrice).

In merito al contratto d’affitto di ramo d’azienda stipulato con *** S.r.l., si rileva che la CTU tecnico-contabile redatta dal Dr. evidenziato l’infondatezza della pretesa del Fallimento attoreo.

In particolare, il consulente ha accertato che: l’operazione di affitto di ramo d’azienda era stata effettuata per la conservazione del valore delle componenti materiali ed immateriali del compendio aziendale (par. 2.4); il canone inizialmente concordato dalle parti in € 1.200,00 al mese era congruo, ed anzi superiore al valore di mercato stabilito in € 650,00 al mese, una volta determinato con metodo patrimoniale semplice (in ragione dei limiti della documentazione disponibile) il valore dei beni strumentali compresi nel ramo d’azienda affittato (par. 2.2); la riduzione del canone, stabilita dalle parti in data 8.02.2013, era giustificata dall’esclusione di alcuni beni originariamente presenti nel ramo d’azienda affittato, che ne aveva determinato la diminuzione di valore (par. 2.3). Peraltro, appare incongruo quanto dedotto da parte attrice, nel rapportare il canone d’affitto del ramo d’azienda all’importo versato da XXX S.r.l. in esecuzione del contratto di leasing immobiliare, dal momento che l’immobile concesso in leasing a XXX S.r.l. non era ricompreso nel ramo d’azienda affittato.

Infine, con riguardo alle conseguenze derivanti dall’affitto del ramo d’azienda e dalla sua protrazione nel corso del tempo fino al fallimento, il CTU ha determinato la perdita economica maturata nel periodo di liquidazione in complessivi € 60.037,65, sul presupposto che la situazione contabile portante perdita economica di € 699.798,20 fosse riferita al periodo 1.01.2012-31.12.2012, come convenuto dalle parti in causa (par. 2.5). Tuttavia, il CTU ha avuto modo di precisare che la quantificazione della perdita economica non era identificabile con il danno cagionato al patrimonio sociale, che “richiede indagine in ordine al compimento, da parte dell’amministratore, in epoca in cui gli era nota o conoscibile la perdita del capitale, di nuove operazioni generatrici, appunto, di danno per la società, ovvero alla prosecuzione della gestione, con modalità e per fini estranei alla mera conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio” (pag. 40 della relazione).

Dunque, la quantificazione operata dal CTU ha ad oggetto la mera perdita contabile registrata nel periodo della liquidazione, che non può costituire la base per l’accertamento della responsabilità degli amministratori. Peraltro, il Dr. , chiamato a rendere chiarimenti all’udienza dell’8.05.2018, ha dichiarato espressamente di non aver rilevato anomalie nella gestione della liquidazione.

Del resto, parte attrice non ha assolto il proprio onere di allegazione e di prova in relazione a specifiche condotte inadempienti (ulteriori rispetto a quelle relative all’erogazione del compenso e al contratto d’affitto del ramo d’azienda) ascrivibili agli amministratori e al liquidatore ed idonee a determinare un danno al patrimonio sociale. Secondo i principi generali, gli amministratori non possono essere ritenuti responsabili delle perdite maturate dall’impresa, senza la prova che il deficit patrimoniale sia stato conseguenza delle condotte gestorie compiute dopo la riduzione del capitale sociale o incompatibili con la fase di liquidazione della società, e possono essere chiamati a rispondere solo dell’aggravamento del dissesto cagionato dalle ulteriori perdite che siano derivate dalla loro condotta illegittima, in quanto commessa al di fuori dei poteri di conservazione del patrimonio sociale (Cass. civ. n. 19733 del 2.10.2015; Cass. civ. n. 25977 del 29.10.2008).

Al riguardo, la Suprema Corte ha affermato: “Né potrebbe ragionevolmente sostenersi che il deficit patrimoniale accertato nella procedura fallimentare – in quanto tale e nella sua interezza – sia di regola la naturale conseguenza dell’essersi protratta la gestione dell’impresa in assenza delle condizioni economiche e giuridiche che giustificano la continuità aziendale: per l’ovvia considerazione che anche in questo caso non sarebbe logicamente corretto né imputare all’amministratore quella quota delle perdite patrimoniali che ben potrebbero già essersi verificate in un momento anteriore al manifestarsi della situazione di crisi in tutta la sua portata, né, soprattutto, far gravare su di lui, a titolo di responsabilità, anche le ulteriori passività che quasi sempre inevitabilmente un’impresa in crisi comunque accumula pur nella fase di liquidazione, giacché questa ovviamente non comporta l’immediata e automatica cessazione di ogni genere di costo legato all’esistenza stessa della società in liquidazione e può ben darsi che ulteriori perdite di valore aziendale vengano generate proprio dalla cessazione dell’attività d’impresa” (Sezioni Unite n. 9100/2015, in motivazione).

Dunque il curatore fallimentare che intenda far valere la responsabilità dell’ex amministratore o del liquidatore per violazione degli obblighi sopra indicati deve allegare e provare che sono state intraprese iniziative imprenditoriali connotate dall’assunzione di nuovo rischio economico-commerciale e compiute al di fuori di una logica meramente conservativa, individuare siffatte iniziative ed indicare quali conseguenze negative, sul piano del depauperamento del patrimonio sociale, ne siano derivate, al netto dei ricavi (Cass. civ. n. 22911 dell’11.11.2010; Cass. civ. n. 17033 del 23.06.2008; Cass. civ. n. 3694 del 16.02.2007).

In mancanza di tali ulteriori allegazioni, accertata la congruità delle operazioni esaminate dal CTU, la domanda proposta da parte attrice appare infondata e deve pertanto essere respinta.

Le istanze istruttorie formulate da parte attrice, anche in sede di precisazione delle conclusioni, appaiono superflue e non possono essere accolte.

L’analisi svolta dal CTU è risultata completa ed esauriente, nonostante le carenze documentali rilevate, ascrivibili anche a parte attrice. Peraltro, l’ordinanza istruttoria del 23.02.2017 veniva modificata con ordinanza del 31.10.2017, che delimitava e specificava l’ambito della documentazione da acquisire tramite ordine di esibizione impartito nei confronti di *** S.r.l., sulla base delle indicazioni rese dal CTU Dr. per iscritto e oralmente all’udienza del 7.09.2017, alla luce delle esigenze connesse all’espletamento dell’incarico: la successiva acquisizione della documentazione ha poi consentito al consulente di svolgere adeguatamente l’indagine tecnica prevista. Inoltre, il CTU ha dichiarato, sia nella relazione, sia all’udienza dell’8.05.2018 in cui è comparso per rendere chiarimenti sull’attività svolta, di aver potuto compiutamente esaminare i documenti esibiti da *** S.r.l., anche in mancanza dei dati sensibili appositamente oscurati, su richiesta di quest’ultima, ritenuti dal CTU superflui perché non afferenti al ramo d’azienda affittato, oggetto della disamina peritale.

Pertanto, le contestazioni svolte da parte attrice appaiono infondate, e rendono superflue ed irrilevanti le conseguenti istanze istruttorie.

Le spese processuali seguono la soccombenza ex art. 91 c.p.c. e debbono essere liquidate, come in dispositivo, secondo i valori medi relativi ai parametri previsti nelle tabelle allegate al D.M. 55/2014.

In base agli stessi principi, sono poste definitivamente a carico della parte soccombente anche le spese di CTU.

P.Q.M.

Il Tribunale di Bologna, in composizione collegiale, ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa o assorbita, così provvede:

– respinge le domande proposte dal Fallimento XXX nei confronti di

YYY, ZZZ e KKK;

– condanna il Fallimento XXX alla refusione, in favore di YYY, ZZZ e KKK, delle spese di lite, che liquida in complessivi € 21.387,00 per compensi, oltre IVA, CPA e 15% per spese generali;

-pone le spese di CTU definitivamente a carico del Fallimento XXX.

Così deciso nella Camera di Consiglio del 19 giugno 2019.

IL GIUDICE RELATORE
IL PRESIDENTE

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