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Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti: legittimità

RITENUTO che con l’ordinanza indicata in epigrafe, emessa il 25 settembre 2003 e pervenuta alla Corte il 7 settembre 2004, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in […]

Pubblicato il 24 January 2007 in Corte Costituzionale

RITENUTO che con l’ordinanza indicata in epigrafe, emessa il 25 settembre 2003 e pervenuta alla Corte il 7 settembre 2004, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: a) dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti), nella parte in cui consente all’imputato di richiedere un termine, non inferiore a quarantacinque giorni, per valutare l’opportunità di formulare la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, a decorrere dalla prima udienza utile successiva all’entrata in vigore della citata legge n. 134 del 2003, anziché a decorrere dalla stessa data di entrata in vigore della legge, per contrasto con gli artt. 3, 97 e 111 della Costituzione; b) dell’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1 della legge n. 134 del 2003, nella parte in cui esclude dal patteggiamento “allargato” – nel quale, cioè, la pena concordata dalle parti superi due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria – gli imputati di reati la cui pena edittale non sarebbe di per sé ostativa all’accesso al rito semplificato, quale, in specie, il reato di cui all’art. 416-bis del codice penale (associazione di tipo mafioso), per contrasto con l’art. 3 della Costituzione; che il giudice a quo premette di essere chiamato a pronunciarsi sull’istanza, proposta dalle difese degli imputati all’udienza del 22 settembre 2003 – destinata alla discussione nell’ambito di un processo penale celebrato con rito abbreviato – di sospensione del processo stesso ai sensi dell’art. 5 della legge n. 134 del 2003, al fine di valutare l’opportunità di formulare la richiesta di applicazione della pena di cui all’art. 444 cod. proc. pen.; che, ad avviso del rimettente, la previsione del comma 1 del citato art. 5 – in forza della quale l’imputato può chiedere l’applicazione della pena, alla luce della nuova disciplina dell’istituto introdotta dalla legge n. 134 del 2003, «anche nei processi penali in corso di dibattimento» – non varrebbe a precludere la proposizione della richiesta stessa prima della discussione nel giudizio abbreviato; che, d’altro canto – sebbene la sospensione del processo per una più consapevole determinazione nella scelta del rito sia espressamente prevista dal comma 2 dell’art. 5 solo in relazione al dibattimento – sarebbe possibile recepire la soluzione interpretativa, già adottata da numerosi uffici giudiziari, secondo cui il termine «dibattimento» andrebbe nel frangente inteso nel senso più ampio di «giudizio», comprensivo anche delle udienze destinate alla celebrazione del giudizio abbreviato; che, ciò premesso, il rimettente dubita, tuttavia, della conformità dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003 agli artt. 3, 97 e 111 Cost.; che la norma denunciata si porrebbe segnatamente in contrasto con il principio di ragionevolezza, in relazione a quelli di «buon andamento dell’amministrazione della giustizia» e di ragionevole durata del processo, nella parte in cui – prevedendo che possa chiedersi un termine «di riflessione» con decorrenza dalla prima udienza utile successiva, anziché dalla stessa data di entrata in vigore della novella – permette agli imputati in processi la cui prima udienza successiva è fissata a notevole distanza di tempo da tale data, di ottenere una dilazione di quarantacinque giorni assolutamente ingiustificata; che la questione risulterebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto l’udienza del 22 settembre 2003 era la prima utile dopo l’entrata in vigore della legge, con la conseguenza che, ove lo spatium deliberandi fosse stato stabilito con riferimento alla data di pubblicazione della legge nella Gazzetta Ufficiale, l’istanza di sospensione non avrebbe potuto essere avanzata; che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il rimettente rileva come la ragionevole durata del processo, prevista dall’art. 111 Cost. – lungi dal costituire un «diritto soggettivo esclusivo» dell’imputato, cui questi potrebbe rinunciare «mediante tattiche dilatorie, abusi di diritti e facoltà previsti dalla legge» – configuri un principio «multilaterale», attinente sia alle parti pubbliche che a quelle private e rivolto anzitutto al legislatore, impegnandolo a strutturare l’organizzazione della giustizia e la disciplina del processo in modo tale che possa giungersi alla sua conclusione nel minor tempo possibile, tenuto conto della ragionevole esplicazione delle garanzie difensive; che nella specie, per contro – non essendo ipotizzabile che dal 29 giugno 2003 (data di entrata in vigore della legge n. 134 del 2003) gli imputati nel giudizio a quo non siano stati messi in condizione di riflettere sull’opportunità di chiedere l’applicazione della pena, mediante colloqui con il difensore – la facoltà accordata dalla norma impugnata si tradurrebbe in «una classica garanzia inutile»: tale, cioè, da non produrre alcun reale vantaggio per l’imputato, se non il semplice allungamento dei tempi processuali; che il rimettente dubita, in pari tempo, della legittimità costituzionale dell’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen., che esclude dal «patteggiamento», quando la pena richiesta superi due anni di pena detentiva, soli o congiunti a pena pecuniaria, gli imputati di determinati delitti – e segnatamente (secondo l’indicazione del rimettente stesso) gli «imputati di reati associativi mafiosi o finalizzati allo spaccio di stupefacenti o in tema di contrabbando» – nonché coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza, o recidivi ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.; che detta disposizione dovrebbe ritenersi in contrasto con l’art. 3 Cost., quanto meno nella parte in cui preclude l’accesso al rito agli imputati del delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. (associazione di tipo mafioso), trattandosi di reato la cui pena edittale – a differenza di quella del reato, parimenti escluso, di cui all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – potrebbe consentire, di per sé, il patteggiamento “allargato”; che, al riguardo, non varrebbe sostenere che quella censurata rappresenta una scelta di politica criminale, giustificata dall’allarme sociale destato dai reati esclusi, posto che qualunque scelta di politica criminale non potrebbe comunque ridondare in un vulnus dell’art. 3 Cost.: vulnus ravvisabile per contro nel caso in esame, sia sul piano del difetto di ragionevolezza, che su quello della disparità di trattamento di ipotesi tra loro assimilabili; che i soggetti cui è riferimento nell’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen. possono infatti accedere tanto al giudizio abbreviato, quanto al patteggiamento «minore»: con la conseguenza che la preclusione risulterebbe priva di razionale giustificazione, esprimendo solo una «simbolica volontà» del legislatore di non consentire l’ulteriore rito semplificato a soggetti che già possono ottenere «aliunde» il medesimo sconto di pena; che il denunciato difetto di ragionevolezza risulterebbe, d’altra parte, ancor più evidente ove si consideri che al patteggiamento “allargato” possono invece accedere gli imputati di una serie di altri reati di vasto allarme sociale – quali la corruzione, la concussione, la rapina e l’estorsione – la cui pena edittale è assimilabile a quella prevista dall’art. 416-bis cod. pen.: senza considerare che l’omogeneità della pena è essa stessa indice dell’analogo disvalore sociale che, nell’apprezzamento del legislatore, connota le diverse condotte; che ammettere che possa farsi luogo ad una differenziazione di schemi processuali in rapporto al tipo di reato contestato e non ai limiti di pena edittale, precludendone alcuni a determinate categorie di soggetti (i «mafiosi», i delinquenti abituali o professionali, i recidivi) – operazione, questa, che parrebbe evocare la teoria del cosiddetto «tipo di autore» – significherebbe legittimare irrazionali discriminazioni soggettive a parità di sanzione penale, mediante istituti (i riti semplificati) che sono finalizzati «all’accertamento dei fatti e non alla repressione di ipotesi di reato»; che la questione sarebbe, infine, rilevante nel giudizio a quo almeno per gli imputati del solo reato di cui all’art. 416­-bis cod. pen., i quali – nel caso di suo accoglimento – potrebbero fruire di una pena «certa» stabilita a seguito di accordo, piuttosto che sottoporsi all’alea del giudizio «libero» sulla pena, salva la diminuzione di un terzo, oltre che dei benefici di cui all’art. 445 cod. proc. pen., non previsti in rapporto al rito abbreviato; che con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Asti ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1 della legge n. 134 del 2003, nella parte in cui esclude dal patteggiamento “allargato” i recidivi reiterati; che il giudice a quo premette di essere investito di procedimenti penali nei confronti di persone imputate di vari reati, le quali avevano formulato, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., richieste di applicazione di pene superiori ai due anni di reclusione; che, in un caso (ordinanza r.o. n. 347 del 2005), il pubblico ministero aveva negato il proprio consenso unicamente in ragione del fatto che gli imputati richiedenti versavano nella condizione di recidivi reiterati, ai sensi dell’art. 99, quarto comma, cod. pen.; mentre nell’altro (ordinanza r.o. n. 478 del 2005), pur avendo il pubblico ministero prestato il consenso, l’istanza non avrebbe potuto essere accolta per la medesima ragione, legata alla qualità di recidivo reiterato del richiedente; che ad avviso del giudice a quo, tuttavia, l’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen., nell’escludere i recidivi reiterati dal patteggiamento “allargato”, violerebbe l’art. 3, primo comma, Cost.; detta esclusione risulterebbe irragionevole, ponendosi in contrasto con la stessa ratio dell’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti, il quale è finalizzato non già ad accordare un beneficio all’imputato, ma ad agevolare la definizione dei processi; che il patteggiamento costituisce, infatti, un negozio processuale a contenuto predeterminato, nel quale i vantaggi riconosciuti all’imputato sono compensati dalla sua accettazione di una pena concordata, con rinuncia al dibattimento e al grado dell’appello: nella qual ottica è già previsto che tanto il pubblico ministero, nel prestare o meno il proprio consenso, quanto il giudice, nel valutare la congruità della pena e la corretta applicazione delle circostanze, debbano tener conto della maggiore pericolosità sociale derivante dalla recidiva reiterata; che il dubbio di costituzionalità riuscirebbe d’altro canto rafforzato, quanto al vulnus del principio di eguaglianza, dal confronto con la disciplina del patteggiamento “infrabiennale” e del giudizio abbreviato; che, riguardo al primo, l’unico limite all’ammissibilità del rito è infatti rappresentato dall’entità della pena detentiva concordata tra la pubblica accusa e l’imputato (due anni): sicché, una volta compiuta la scelta di ampliare fino a cinque anni la pena che le parti possono concordare – all’evidente scopo di incrementare il numero dei processi definibili con tale rito – non vi sarebbe ragione per vanificare siffatta finalità deflattiva, escludendo gli imputati recidivi reiterati; che la limitazione in discorso si rivelerebbe altrettanto ingiustificata nel confronto con la disciplina del giudizio abbreviato (che non la contempla), giacché – pur nella diversità dei due riti – le conseguenze della scelta fra l’uno e l’altro risulterebbero identiche nel caso di condanna, comportando entrambi la diminuzione di un terzo della pena ritenuta congrua; che, d’altra parte, il patteggiamento “allargato” non comporta i benefici connessi all’applicazione della pena su richiesta entro il limite dei due anni (esenzione dal pagamento delle spese processuali e dall’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, diverse dalla confisca); onde la sentenza che applica la pena superiore ai due anni risulterebbe – quanto agli effetti per l’imputato – assai simile alla sentenza di condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, differenziandosene unicamente per l’inefficacia nei giudizi civili e amministrativi: beneficio, peraltro, indubbiamente compensato, «sul piano sinallagmatico», dalla rinuncia al giudizio e all’appello; che qualora pure, infine, si volesse ravvisare nel patteggiamento una qualche componente premiale, l’esclusione dei recidivi reiterati rimarrebbe ugualmente irragionevole, giacché l’unico parametro sanzionatorio della pericolosità sociale previsto dall’ordinamento giuridico è l’entità della pena, sulla quale soltanto incidono le circostanze, qual è la recidiva: circostanze che, d’altro canto, debbono essere «sempre ancorate ad un giudizio sul fatto in concreto», e non «ad un giudizio astratto sulla persona», tanto che al giudice è concessa la facoltà di escludere la recidiva stessa. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche od analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia; che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari dubita, anzitutto, della conformità agli artt. 3, 97 e 111 Cost. della disposizione transitoria di cui all’art. 5, commi 1 e 2, della legge n. 134 del 2003, nella parte in cui consente all’imputato di richiedere un termine, non inferiore a quarantacinque giorni, per valutare l’opportunità di formulare la richiesta di applicazione della pena alla luce della nuova disciplina introdotta dalla citata legge, con decorrenza dalla prima udienza utile successiva all’entrata in vigore della novella, anziché dalla stessa data della sua entrata in vigore; che per quanto attiene al preteso contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., questa Corte ha già avuto modo di affermare che la scelta sottesa alla norma censurata costituisce espressione dell’ampia discrezionalità di cui il legislatore gode nel regolare gli effetti, nei processi in corso, di nuovi istituti processuali o delle modificazioni apportate ad istituti già esistenti: discrezionalità il cui esercizio non è suscettibile di sindacato sul piano della legittimità costituzionale, col solo limite della manifesta irragionevolezza delle soluzioni adottate; che lo spatium deliberandi accordato all’imputato dalla disposizione impugnata – ad onta della sua «inusitata ampiezza» – non può, per contro, ritenersi manifestamente irrazionale, né incompatibile con il principio della ragionevole durata del processo, dovendo quest’ultimo principio essere contemperato con la tutela di altri diritti costituzionalmente garantiti, ad iniziare dal diritto di difesa, il quale trova nella richiesta di applicazione della pena da parte dell’imputato una delle sue modalità di esercizio (sentenza n. 219 del 2004; ordinanze n. 91 del 2005 e n. 420 del 2004); che per quanto concerne, poi, il dedotto vulnus dell’art. 97 Cost., è costante, nella giurisprudenza di questa Corte, l’affermazione in forza della quale il principio del buon andamento si riferisce agli organi dell’amministrazione della giustizia unicamente per i profili concernenti l’ordinamento degli uffici giudiziari ed il loro funzionamento sotto l’aspetto amministrativo; mentre esso non riguarda l’esercizio della funzione giurisdizionale nel suo complesso ed i provvedimenti che ne costituiscono espressione (ex plurimis, sentenze n. 174 del 2005 e n. 5 del 2004; ordinanze n. 44 del 2006 e n. 94 del 2004); che entrambi i giudici rimettenti sottopongono, in secondo luogo, a scrutinio di costituzionalità, con riferimento all’art. 3 Cost., il regime delle esclusioni dall’applicazione della pena su richiesta delle parti, prefigurato dall’art. 444, comma 1-bis, cod. proc. pen. (aggiunto dall’art. 1 della legge n. 134 del 2003) per l’ipotesi in cui la pena concordata superi due anni di pena detentiva, soli o congiunti a pena pecuniaria (cosiddetto patteggiamento “allargato”); che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari censura, in particolare, le preclusioni di ordine oggettivo, ritenendo irrazionale e foriera di ingiustificate disparità di trattamento l’esclusione degli imputati di reati la cui pena edittale non sarebbe di per sé ostativa all’accesso al rito semplificato, quale, in specie, il delitto di cui all’art. 416-bis del codice penale (associazione di tipo mafioso); mentre il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Asti ravvisa una compromissione del parametro evocato nelle preclusioni di ordine soggettivo, con riguardo segnatamente all’esclusione dei recidivi reiterati; che in ordine a quest’ultima la Corte si è peraltro già specificamente espressa, negando la configurabilità del vulnus denunciato (ordinanza n. 421 del 2004); che, in proposito, si è rilevato come – alla stregua di quanto precedentemente affermato dalla Corte stessa, in sede di esame di una questione di legittimità costituzionale volta a censurare l’eccessiva ampiezza dell’area di operatività del nuovo patteggiamento “allargato” (sentenza n. 219 del 2004) – «le cautele adottate dal legislatore nel prevedere le ipotesi di esclusione oggettiva e soggettiva in relazione alla gravità dei reati ed ai casi di pericolosità qualificata», unitamente all’esclusione «di importanti effetti premiali», nel caso di pena concordata ultrabiennale, rappresentino soluzioni di “riequilibrio” – certamente riconducibile alla discrezionalità del legislatore – della scelta di dilatare il perimetro della “giustizia negoziata”, connotando tale scelta, nel suo complesso, come non manifestamente irrazionale; che, d’altra parte, la condizione del soggetto recidivo è posta normalmente dal legislatore a base di un trattamento differenziato e meno favorevole, rispetto alla posizione del soggetto incensurato: costituendo in particolare la recidiva reiterata – considerata sintomatica di una pericolosità soggettiva più intensa rispetto alle altre forme di recidiva – elemento impeditivo dell’applicazione di numerosi istituti (amnistia e indulto, salvo che la legge disponga altrimenti; oblazione discrezionale; sospensione condizionale della pena; estinzione delle pene della reclusione e della multa per decorso del tempo; nonché – attualmente – comparazione delle circostanze); che, pertanto, risulta coerente con le finalità perseguite in via generale dall’ordinamento penale che il legislatore – nell’estendere la sfera applicativa del rito alternativo – abbia previsto specifiche «esclusioni soggettive nei confronti di coloro che, da un lato, hanno dimostrato un rilevante grado di capacità a delinquere e, dall’altro, sono imputati di reati che – ove si tenga conto della determinazione della pena in concreto e della speciale diminuente di un terzo per effetto del patteggiamento – rivestono non trascurabile gravità, tanto da comportare l’applicazione di una pena detentiva superiore a due e sino a cinque anni»; che analoghe considerazioni valgono a rendere palese l’infondatezza del dubbio di costituzionalità relativo alle preclusioni oggettive; che quanto, infatti, all’assunto del giudice rimettente, secondo cui l’esclusione dal patteggiamento “allargato” del delitto previsto dall’art. 416-bis cod. pen. sarebbe ingiustificata, essendo ammessi a tale rito gli imputati di altri reati di notevole allarme sociale e puniti con pena similare, vale osservare che l’ordinamento annovera un’ampia gamma di ipotesi nelle quali, per ragioni di politica criminale, il legislatore connette al titolo del reato – e non (o non soltanto) al livello della pena edittale – l’applicabilità di un trattamento sostanziale o processuale più rigoroso; che, sul versante sostanziale, è sufficiente far riferimento alle esclusioni oggettive dall’amnistia e dall’indulto, previste dai vari provvedimenti di clemenza succedutisi nel tempo; alle esclusioni oggettive dalle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi (ora peraltro rimosse dalla stessa legge n. 134 del 2003); ai divieti di concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti; all’inapplicabilità dell’espulsione, come sanzione sostitutiva o alternativa alla detenzione, allo straniero condannato per determinati delitti (art. 16, commi 3 e 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (recante il «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero»); che ancor più numerosi risultano, poi, i casi di diversità di trattamento processuale “in peius” legati al titolo del reato: e così, con particolare riferimento proprio ai reati di cui all’art. 51-bis cod. proc. pen., richiamato dalla norma impugnata, basti pensare all’art. 190-bis cod. proc. pen., in tema di diritto alla prova; agli artt. 25-bis e 25-ter del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, in tema di perquisizione di edifici e di intercettazioni preventive; all’art. 406, comma 5-bis, cod. proc. pen., in tema di proroga delle indagini preliminari; che, in tali ipotesi, l’individuazione delle fattispecie criminose da assoggettare al trattamento più rigoroso – proprio in quanto basata su apprezzamenti di politica criminale, connessi specialmente all’allarme sociale generato dai singoli reati, il quale non è necessariamente correlato al mero livello della pena edittale – resta affidata alla discrezionalità del legislatore; e le relative scelte possono venir sindacate dalla Corte solo in rapporto alle eventuali disarmonie del catalogo legislativo, allorché la sperequazione normativa tra figure omogenee di reati assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione (con riferimento alle esclusioni oggettive dall’amnistia, ex plurimis, sentenza n. 272 del 1997; ordinanze n. 481 del 1991 e n. 436 del 1987); che nella specie, per contro, nessuna disarmonia di tal fatta è stata addotta dal rimettente, che ha allegato, come tertia comparationis, fattispecie criminose – concussione, corruzione, rapina, estorsione – del tutto eterogenee rispetto a quelle in rapporto alle quali è sancita l’esclusione; che, d’altro canto, appare priva di consistenza la censura di violazione dell’art. 3 Cost. legata al raffronto con il patteggiamento “infrabiennale”, al quale le preclusioni censurate non risultano estese; che è di tutta evidenza, infatti, come si tratti di raffronto non significativo, proprio alla luce del diverso livello della pena concordata nei due casi, avendo il legislatore inteso escludere dalla “giustizia negoziata” gli autori di determinati reati, i quali – oltre a risultare di particolare allarme sociale per le loro connotazioni intrinseche – si presentino, altresì, di significativa gravità in concreto: tanto da non permettere di concordare come trattamento punitivo congruo (art. 444, comma 2, cod. proc. pen.) – tenuto conto delle circostanze e della diminuzione fino ad un terzo connessa al patteggiamento – una pena contenuta entro il limite dei due anni; che altrettanto evidente risulta, infine, l’inconferenza del raffronto con il giudizio abbreviato (che parimenti non contempla preclusioni oggettive e soggettive): trattandosi di istituto nettamente differenziato non solo sul piano delle connotazioni astratte (in prospettiva inversa a quella odierna, sentenza n. 135 del 1995), ma anche su quello degli effetti pratici, come del resto riconosce lo stesso Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari, allorché motiva sulla rilevanza della questione; che, pur a fronte della rilevante limitazione dei benefici connessi al patteggiamento “allargato”, quest’ultimo consente infatti all’imputato di sottoporsi ad una pena certa, preventivamente concordata (non potendo il giudice modificare i contenuti del “patto” intercorso fra le parti), che gli verrà inflitta – in applicazione di una particolare regola di giudizio (l’insussistenza dei presupposti per una pronuncia di proscioglimento ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.: in tal senso l’art. 444, comma 2, cod. proc. pen.) – con una sentenza solo «equiparata» a una pronuncia di condanna e priva di efficacia nei giudizi civili e amministrativi (art. 445, comma 2, cod. proc. pen.); che, per contro, con il giudizio abbreviato l’imputato, accettando di essere giudicato sulla base degli atti, lascia inalterati i poteri decisori del giudice; quest’ultimo, nel caso di condanna, emetterà una sentenza contenente un’affermazione piena di responsabilità, con la quale infliggerà la pena – ancorché ridotta di un terzo – ritenuta equa dallo stesso giudicante e che potrebbe risultare di gran lunga superiore a quella che l’imputato sarebbe stato disposto a “negoziare”; che, conclusivamente, il regime delle preclusioni, oggettive e soggettive, del patteggiamento “allargato” costituisce frutto di scelta discrezionale e di per sé non arbitraria del legislatore; quest’ultimo, nell’estendere sensibilmente l’ambito di operatività dell’istituto, ha ritenuto di dover considerare – in un’ottica del bilanciamento tra contrapposti interessi – sia i caratteri oggettivi del reato per cui si procede, sia le condizioni soggettive degli imputati, espressive di una pericolosità qualificata: escludendo che, in determinate ipotesi, pur astrattamente rientranti negli ampliati limiti di applicabilità dell’istituto stesso, le esigenze di economia processuale prevalgano su quella di un vaglio completo del fondamento dell’accusa, destinato a sfociare in un accertamento pieno di responsabilità e che lasci integro il potere del giudice di autonoma determinazione del trattamento punitivo; che le questioni debbono essere dichiarate, pertanto, manifestamente infondate. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5, commi 1 e 2, della legge 12 giugno 2003, n. 134 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti) e dell’art. 444, comma 1-bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall’art. 1 della citata legge n. 134 del 2003, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 97 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bari e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Asti con le ordinanze indicate in epigrafe. Ordinanza della Corte Costituzionale n. 455 del 28 dicembre 2006

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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