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Esclusione dello straniero dall’accesso al lavoro pubblico

Tra gli aspetti giuridici dell’immigrazione extracomunitaria, la materia dell’accesso al lavoro si colloca nel quadro di regole di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel complesso di norme che afferiscono al godimento dei diritti fondamentali, l’accesso al mercato del lavoro e ai servizi sociali, i rapporti personali e familiari. 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo (resa esecutiva con l. 881/1977), non si rinviene in materia di lavoro alcun precetto che includa tra i diritti fondamentali la parità di trattamento di cittadini e stranieri in materia di requisiti di accesso ai pubblici impieghi.

Pubblicato il 21 November 2006 in Diritto del Lavoro, Giurisprudenza Civile

Tra gli aspetti giuridici dell’immigrazione extracomunitaria, la materia dell’accesso al lavoro si colloca nel quadro di regole di convivenza fra immigrati e cittadini, ovvero in quel complesso di norme che afferiscono al godimento dei diritti fondamentali, l’accesso al mercato del lavoro e ai servizi sociali, i rapporti personali e familiari.

In questo ambio il diritto al lavoro (sancito dall’art. 4 della Costituzione) è esso stesso diritto soggettivo, e comprende tanto la facoltà di scelta ed esercizio dell’attività professionale (offerta della forza-lavoro), quanto la possibilità di soddisfare il bisogno di accesso alle occasioni di lavoro (domanda della forza-lavoro).

Ma il diritto al lavoro garantito dall’art. 4 della Costituzione costituisce garanzia che la legislazione ordinaria, in modo non arbitrario e rispettoso dei valori costituzionali, ha il potere di precisare richiedendo per talune attività lavorative particolari condizioni e requisiti (C.Cost. 441/2000).

Ed in effetti, il lavoro pubblico subordinato, anche quello reso contrattuale dalla riforma attuata dalle norme ora raccolte dal d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (che implica, al pari di quello in regime di diritto pubblico, la possibilità del conferimento della titolarità di funzioni pubbliche), costituisce una species del lavoro subordinato, contrassegnato da elementi di peculiarità di cui i principali sono posti dagli art. 97 e 98 Cost. e sono la necessità del concorso pubblico (salvo le deroghe previste dalla legge) ed il principio secondo cui gli impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione (in tema di specialità del lavoro pubblico, si veda, in particolare, C.Cost. 313/1996, 309/1997, 89/2003, 199/2003).

Vi è poi da considerare l’art. 51 della Costituzione, secondo cui tutti i cittadini possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge.

Si ritiene generalmente che l’intento dei costituenti fu di garantire che i fini pubblici fossero perseguiti e tutelati nel migliore dei modi, e di puntare per questo sui cittadini, nei quali si riteneva esistente una naturale compenetrazione dei fini personali in quelli pubblici; nondimeno, la formulazione della norma sembra offrire, spunti per una lettura restrittiva agli uffici pubblici, limitata cioè all’esercizio di attività autoritative.

Ma, anche ad accettare questa lettura riduttiva, sono le altre norme costituzionali sopra richiamate ad offrire sufficiente copertura alla disciplina ordinaria preclusiva dell’accesso al lavoro pubblico dei cittadini extracomunitari nell’ambito di una scelta che qualifica speciale il lavoro pubblico e lo assoggetta a regolamentazione particolare. Deve altresì confutarsi la tesi secondo cui la norma sulla cittadinanza, vigente formalmente, sarebbe contrastante con un principio generale ormai acquisito dall’ordinamento nella parte in cui accorda la tutela antidiscriminatoria.

Sul terreno del diritto sostanziale, la discriminazione è comportamento illecito, non configurabile, ovviamente, se tenuto in esecuzione di disposizioni normative; su quello della tutela, è evidente che deve trattarsi del necessario riflesso della protezione accordata dal diritto sostanziale, diritto sostanziale che è nel senso della permanente vigenza della norma che prevede il requisito della cittadinanza italiana, disposizione che regola una materia specifica, qual è l’accesso al lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione, non potendo, quindi, operare il canone ermeneutico dell’incompatibilità sui lavoratori immigrati.

Conclusivamente, in materia di rapporti con la pubblica amministrazione, viene riconosciuta la parità di tutti gli aspiranti lavoratori non in termini assoluti e totali ma nei limiti e nei modi previsti dalla legge e ciò non comporta incompatibilità con disposizioni costituzionali, perché non rientra tra i diritti fondamentali garantiti l’assunzione alle dipendenze di un determinato datore di lavoro (C.Cost. n. 120/1967 e n. 241/1974; in tema di diritti fondamentali che vanno riconosciuti indipendentemente dalla cittadinanza C.Cost. n. 432/2005). Inoltre, nell’art. 7 della Convenzione dei diritti dell’uomo (resa esecutiva con l. 881/1977), non si rinviene in materia di lavoro alcun precetto che includa tra i diritti fondamentali la parità di trattamento di cittadini e stranieri in materia di requisiti di accesso ai pubblici impieghi. Piuttosto, la norma di limita a precludere discriminazioni tra lavoratori già assunti e non già tra concorrenti.

Quanto alla legge 10 aprile 1981, n. 158 – Ratifica ed esecuzione delle convenzioni numeri 92, 133 e 143 dell’Organizzazione internazionale del lavoro – nella parte in cui impegna a garantire allo straniero emigrante un trattamento identico a quello dei cittadini nazionali, la giurisprudenza della Corte ha già precisato che per dare concreta attuazione alle disposizioni della convenzione, non basta l’ordine di esecuzione impartito dalla legge di ratifica, essendo invece necessaria l’emanazione di specifiche norme da parte dello Stato ovvero, secondo l’espressa previsione della convenzione, l’intervento della contrattazione collettiva (Cass. 1062/1999).

Va comunque ricordato che l’adeguamento automatico della legislazione nazionale, ai sensi dell’art. 10, comma primo, Cost., non si estende agli impegni derivanti dalle fonti pattizie internazionali, che fanno parte del diritto nazionale in virtù di una legge ordinaria (legge di ratifica), legge che non può costituire parametro di legittimità costituzionale di altra legge (giurisprudenza costituzionale consolidata cfr. C.Cost, 188/1980, 15/1982, 153/1987, 75/1993, 86/1991, 288/1997).

In materia di principio di parità, la Corte Costituzionale ha ritenuto che parità ed eguaglianza di diritti, come previste dall’art. 2 secondo comma, del d.lgs. 286/1998, trovano immediata applicazione nell’ordinamento: non è necessaria una norma specifica che affermi il diritto del lavoratore extracomunitario a godere di singoli diritti, in quanto la garanzia legislativa già di per sé equipara gli extracomunitari ai cittadini nel godimento dei diritti stessi, salvo che le convenzioni internazionali o lo stesso testo unico dispongano diversamente.

Giova ricordare che la stessa Corte Costituzionale, con la sentenza 16 giugno 1995, n. 249, ha affermato, sotto il vigore della l. n. 943, che grazie al principio di parità, si applicano al lavoratore extracomunitario anche i principi derivanti dalla legislazione comunitaria, che, in quanto validi per il cittadino italiano, debbono essere necessariamente altrettanto validi per l’extracomunitario. Analoga impostazione risulta seguita, sempre in materia di ammissione al collocamento, dalla Suprema Corte (3345/1998), la quale ha in proposito modificato un precedente contrario indirizzo (Cass. 6167/1994).

Va precisato che la speciale disciplina sul collocamento obbligatorio degli invalidi va ricondotta non all’assistenza sociale (art. 38, comma primo, Cost.; art. 41 d.lgs. 286/1998), ma alle forme di attuazione del diritto che gli inabili e i minorati hanno, a norma dell’art. 38, terzo comma, della Costituzione, all’avviamento professionale (cfr. C.Cost. n. 38 del 1960 e n. 55 del 1961), diritto del quale gode anche lo straniero avente titolo ad accedere al lavoro subordinato nel territorio dello Stato in condizioni di uguaglianza con i cittadini, non essendovi, sotto questo profilo, ragione di differenziarne il trattamento rispetto al cittadino italiano.

Ora, spetta pur sempre al legislatore stabilire le condizioni di accesso a speciali forme di lavoro subordinato o autonomo, esprimendo la stessa Costituzione il principio di non parificazione dello straniero con il cittadino e l’ordinamento, con il complesso di norme già esaminate, mediante scelta conforme al dettato costituzionale, ha stabilito il requisito della cittadinanza per l’accesso al lavoro pubblico.

Non è, quindi, condivisibile la tesi che la legislazione di sostegno dei lavoratori disabili non incontri la limitazione della disciplina particolare della materia dell’impiego pubblico, costituzionalmente legittima anche nella parte in cui non deroga al requisito della cittadinanza per le categorie protette.

Del resto, la stessa sentenza costituzionale 454/1998, avverte esplicitamente che il principio di parità può essere derogato da convenzioni internazionali, da norme dello stesso testo unico sull’immigrazione o altre disposizioni speciali presenti nell’ordinamento giuridico nazionale, che disciplinano particolari settori negando, esplicitamente o implicitamente, al cittadino extracomunitario, in deroga alla piena eguaglianza, la possibilità di esercitare un diritto invece riconosciuto al cittadino italiano o comunitario.

Giova anche richiamare la sentenza n. 120/1967 della Corte Costituzionale, secondo cui il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione va letto in connessione con l’art. 2 e con l’art. 10, secondo comma, della Costituzione, il primo dei quali riconosce a tutti, cittadini e stranieri, i diritti inviolabili dell’uomo, mentre l’altro dispone che la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Il requisito del possesso della cittadinanza italiana, richiesto per accedere al lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni dall’art. 2 d.P.R. 487/1994 – norma legificata dall’art. 70, comma 13, d.lgs. 165/2001 – e dal quale di prescinde, in parte, solo per gli stranieri comunitari, nonché per casi particolari (art. 38 d.lgs. 165/2001; art. 22 d.lgs. 286/1998), si inserisce nel complesso delle disposizioni che regolano la materia particolare dell’impiego pubblico, materia fatta salva dal d.lgs. 286/1998, che, in attuazione della convenzione Oil n. 175/1975, resa esecutiva con l. 158/1981, sancisce, in generale, parità di trattamento e piena uguaglianza di diritti per i lavoratori extracomunitari rispetto ai lavoratori italiani; né l’esclusione dello straniero non comunitario dall’accesso al lavoro pubblico (al di fuori delle eccezioni espressamente previste dalla legge) è sospettabile di illegittimità costituzionale, atteso che si esula dall’area dei diritti fondamentali e che la scelta del legislatore è giustificata dalle stesse norme costituzionali (art. 51, 97 e 98 Cost.).

Cassazione Civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 24170 del 13 novembre 2006

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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