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Professionista che ricopre la carica di amministratore unico

La giurisprudenza di questa Corte (nonché del Consiglio Nazionale Forense) in materia è fermissima nel ritenere che la situazione d’incompatibilità con l’esercizio della professione forense, prevista dall’art. 3, comma 1, r. d. l. 27 novembre 1933, n. 1578, la situazione di incompatibilità all’esercizio della professione forense discende obbiettivamente dalla assunzione di una carica sociale, quale quella di amministratore delegato di una società commerciale, che comporti poteri di gestione e di rappresentanza.

Pubblicato il 25 January 2007 in Diritto Societario, Giurisprudenza Civile

La giurisprudenza di questa Corte (nonché del Consiglio Nazionale Forense) in materia è fermissima nel ritenere che la situazione d’incompatibilità con l’esercizio della professione forense, prevista dall’art. 3, primo comma, del r.g.l. 27 novembre 1933, n. 1578 per il caso di esercizio del commercio in nome altrui ricorre nei confronti del professionista che assuma la carica di amministratore delegato di una società commerciale, ove risulti che tale carica, in forza dell’atto costitutivo o di delega del consiglio di amministrazione, comporti effettivi poteri di gestione e di rappresentanza, ed a prescindere da ogni indagine sulla consistenza patrimoniale della società medesima e sulla sua conseguente esposizione a procedure concorsuali.

In altri termini, il professionista che ricopra la carica di Presidente del consiglio di amministrazione, di amministratore unico o di amministratore delegato di una società commerciale si trova in una situazione di incompatibilità (esercizio del commercio in nome altrui) prevista dall’art. 3, r.d.l. n. 1578 del 1933, situazione d’incompatibilità che, invece, non ricorre quando il professionista pur ricoprendo la carica di Presidente del consiglio di amministrazione, sia stato privato, per statuto sociale o per successiva deliberazione, dei poteri di gestione dell’attività commerciale, attraverso la nomina di un amministratore delegato.

A norma dell’art. 3, comma 1, r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, la situazione di incompatibilità all’esercizio della professione forense discende obbiettivamente dalla assunzione di una carica sociale, quale quella di amministratore delegato di una società commerciale, che comporti poteri di gestione e di rappresentanza.

La norma in parola è stata promulgata nel vigore del Codice di Commercio di cui al r.d. 31 ottobre 1882, n. 1062.

Quest’ultimo non solo all’art. 3 precisava che la legge reputa atti di commercio non solo la compravendita di merci, ma qualsiasi attività imprenditoriale, ma all’art. 8 recitava sono commercianti coloro che esercitano atti di commercio per professionale abituale e le società commerciali.

Del resto si osserva che l’art. 2195, comma 2, del vigente codice civile espressamente prevede che le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano.

Certo che il ricordato art. 2195 c.c. prevede, sub 1, tra le altre, le attività industriali dirette alla produzione di beni o di servizi.

Deve ribadirsi, ulteriormente, che l’art. 38 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 sull’ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore, nel prevedere come illecito disciplinare i fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale, non individua comportamenti tassativamente determinati, poiché il principio di legalità si riferisce solo alle sanzioni penali e non si applica alle sanzioni disciplinari.

In altri termini, legittimamente l’art. 38 r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 non individua comportamenti tassativi di illecito disciplinare per gli avvocati, perché il principio di legalità, di cui all’art. 25, comma 2, Cost., si riferisce soltanto alle sanzioni penali.

Ne deriva che è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale delle norme dell’Ordinamento professionale forense, in relazione agli art. 3, 24, 25 e 27 Cost., nella parte in cui, con riguardo alla materia disciplinare, omettono una precisa individuazione delle regole di deontologia professionale, poiché la predeterminazione e la certezza dell’incolpazione ben può ricollegarsi a concetti diffusi e generalmente compresi dalla collettività in cui il giudice opera e poiché all’esercizio del potere disciplinare, quale espressione di potestà amministrativa, sono estranei i precetti costituzionali concernenti la funzione giurisdizionale.

Cassazione Civile, Sezioni Unite, Sentenza n. 37 del 5 gennaio 2007

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